Category: Pagine di storia

  • La Romania e la decolonizzazione africana

    La Romania e la decolonizzazione africana

    Dopo la fine della seconda Guerra mondiale nel 1945, il movimento di decolonizzazione cominciò a segnare le relazioni internazionali, visto che la dominazione degli imperi coloniali era assai contestata. Però la decolonizzazione significò anche violenze e persino guerre civili tra i gruppi politici che proponevano modelli concorrenti di sviluppo dei nuovi stati, incapaci, però di dialogare. In pochi casi la situazione si risolse in maniera pacifica, come in India.



    La decolonizzazione dell’Africa fu fortemente sostenuta dall’Unione Sovietica e dalla Cina, Paesi comunisti in cerca di sfere di influenza nella lotta contro il capitalismo. Nella maggior parte delle colonie africane, le dispute si risolsero tramite guerra perché le guerriglie comuniste, sovvenzionate e munite di armamento dal blocco comunista, rifiutarono i negoziati con gli altri gruppi politici.



    Come tutti gli stati comunisti, anche la Romania si impegnò nella decolonizzazione africana, provando una soluzione indipendente e puntando sul movimento dei Paesi non-allineati, di cui però non faceva parte.



    Mircea Nicolaescu è stato ambasciatore in alcuni Paesi dell’Africa e del Sud America, e come membro della delegazione romena all’ONU, faceva parte del Comitato per la Decolonizzazione. In un’intervista rilasciata nel 1996 al Centro di Storia Orale di Radio Romania, Mircea Nicolaescu ha parlato dei principi della Romania sulla decolonizzazione africana.



    Rapporti tra la Romania e gli spazi ex-coloniali c’erano stati anche prima della seconda Guerra mondiale, alcuni assai intensi. Si sono però intensificati nel dopoguerra, soprattutto col tentativo della Romania di entrare nel mondo come Paese indipendente, con la propria politica, alla ricerca di alleanze e di interessi comuni. Uno dei punti degli accordi con queste colonie – Paesi africani riguardava il mantenimento della libertà individuale, il diritto di ogni Paese di scegliere la propria via di sviluppo. La questione del sistema interno, della sua osservanza, è sempre stata sottolineata nei nostri documenti di politica estera”, spiega Mircea Nicolaescu.



    Nel caso dei conflitti civili, la soluzione scelta dalla diplomazia romena fu un atteggiamento equidistante, senza impegni aperti al fianco di uno schieramento o di un altro.



    Al Cairo erano pochissime le ambasciate visitate da rappresentanti di tutti i movimenti per la liberazione dell’Africa. Negli anni 1961-64, tutti questi movimenti, a prescindere dal colore politico, avevano residenza al Cairo. Però solo alle ambasciate di Romania e di altri 2-3 Paesi venivano rappresentanti di movimenti sia di destra che di sinistra. I sovietici avevano il loro gruppo di clienti che sostenevano fortemente il regime socialista, direttamente sovietico. Anche i cinesi avevano i loro clienti, per non parlare degli americani. Meno i francesi o gli inglesi che erano compromessi. Nei Paesi in cui le vertenze ideologiche avevano frantumato il movimento di liberazione, come in Congo, Angola, Mozambico, Kenya, Zimbabwe e così via, la Romania fu l’unica ad aver mantenuto i contatti sia con gli uni che con gli altri. Abbiamo avuto sempre il canale del dialogo aperto, dicendo però che era compito loro trovare un accordo”, aggiunge Mircea Nicolaescu.



    La via di una politica africana indipendente scelta dalla Romania non era gradita dai sovietici. Però l’equidistanza proposta dalla Romania non fu una realistica, e lo dimostra la sua scarsa eco, come risulta dalle spiegazioni di Mircea Nicolaescu.



    Alla proclamazione dell’indipendenza dell’Angola, i sovietici avevano organizzato una riunione di tutti gli ambasciatori dei Paesi socialisti per andare a portare insieme il saluto al nuovo presidente eletto. Solo che il rappresentante della Romania, l’ambasciatore Gheorghe Stoian, non accettò di andarci assieme agli altri, andò da solo, prima di tutti, presentò il saluto e il sostegno all’indipendenza dell’Angola. Per tutto quel periodo di confusione, noi abbiamo tenuto i contatti con tutti i movimenti, consigliandoli permanentemente di andare d’accordo tra di loro. I sovietici hanno puntato su uno dei movimenti, gli americani su un altro, i cinesi si sono affiancati agli americani, il che è diventato motivo di guerra. Non è successo lo stesso in Tanzania, dove la maturità delle forze interne è riuscita a stare alla larga sia dagli uni che dagli altri”, dice ancora Mircea Nicolaescu.



    L’ex diplomatico ha accennato anche alle peculiarità dell’Africa, che, trascurate, hanno determinato fallimenti, come nel caso dell’Algeria. Per quanto riguarda la visione sul processo di decolonizzazione, a volte si divide in maniera artificiale l’evoluzione della cosiddetta Africa Araba da quella della cosiddetta Africa Nera. Non si può dire che l’Africa sia solo Nera o solo Araba quasi in nessuna delle sue zone. Nell’Africa Sahariana c’è una zona di influenze reciproche. E’ difficile fare una simile separazione anche dal punto di vista storico. Uno degli ultimi stati africani a proclamare l’indipendenza fu l’Algeria. Poche furono le zone coloniali del mondo inserite proprio nel territorio nazionale del Paese-metropoli, come l’Algeria, che fu sciolta come entità e divisa in tre dipartimenti della Francia. Uno degli esempi di fallimento del movimento comunista fu l’Algeria perché non aveva capito che si trattava dell’indipendenza nazionale di un popolo, non dell’indipendenza di tre dipartimenti della Francia”, conclude Mircea Nicolaescu.



    Il coinvolgimento della Romania nella decolonizzazione africana significò anche la scelta di una direzione senza prospettive nella diplomazia. Negli anni ’80, isolata dal mondo politico occidentale e tenuta a distanza dai Paesi socialisti, la diplomazia del regime Ceauşescu ha puntato molto sulla carta africana.

  • Il XIV congresso del Partito comunista romeno

    Il XIV congresso del Partito comunista romeno

    Il XIV congresso del Partito comunista romeno, svoltosi dal 20 al 24 novembre 1989, era atteso con grande interesse dai romeni e da tutti coloro che seguivano il percorso politico che il dittatore Nicolae Ceauşescu voleva dare alla Romania. Di solito, le conferenze e i congressi del partito erano ignorati dalla gente comune, costretta ad interagirne solo a causa dell’apparato di partito e repressivo. Però quest’ultimo congresso destava interesse, dal momento che i romeni vedevano come intorno a loro crollavano ad uno ad uno, gli altri regimi comunisti. E siccome quello di Ceauşescu sembrava eterno, i romeni non speravano più in una cambiamento pacifico, mentre i pessimisti non si aspettavano a nulla.



    La società romena era prigioniera delle proprie frustrazioni, della mancanza di visione ed azione della classe politica che non poteva trovare un successore al dittatore che presiedeva la Romania dal 1965. A cominciare dal 1974, il culto della personalità culminò con gli anni 1980, quando tutto era diventato insopportabile. Sullo sfondo della crisi cronica del sistema comunista, apparve anche l’ambizione irrazionale di Nicolae Ceauşescu che la Romania dovesse saldare interamente il suo debito esterno. Ciò determinò privazioni estreme che interessarono persino i mezzi elementari di sussistenza come il cibo e il riscaldamento.



    L’ingegnere Pamfil Iliescu lavorava nella fabbrica “23 August”, una delle maggiori imprese romene, e fu anche leader sindacale, in permanente contatto con la gente e i suoi desideri. L’atmosfera era sempre peggiore, e il fatto più grave era il deterioramento psicologico. L’intervista all’ingegnere Iliescu è stata registrata dal Centro di Storia Orale di Radio Romania nel 2002.



    “Negli ultimi 5-6-7 anni, il nostro lavoro cominciava a farsi sentire del tutto inutile. Soprattutto nella fabbrica “23 August” tale fatto era ben visibile. La gente lavorava, ma il problema apparve nel momento in cui iniziò l’epoca dei grandi investimenti. Soprattutto alla metà degli anni ‘80, era chiaro che i cosiddetti investimenti erano solo soldi buttati via. Nel nostro reparto ad esempio, fu investito, in quel periodo, mezzo miliardo di lei di cui, senza esagerare, non riuscivamo ad utilizzare assolutamente niente”, ricordava l’ingegnere.



    L’industria romena, in cui erano stati investiti moltissimi soldi, presi in prestito dalla Romania, doveva garantire la prosperità. Però proprio l’industria si dimostrava un peso enorme per l’economia. La causa del malfunzionamento era la logica ultra-burocratizzata in cui funzionava il regime comunista.



    “Il problema generale fu il seguente: ti davano un attrezzo e ti dicevano di prenderlo in consegna. Te lo mettevano lì, ma non aveva nulla a che fare con il flusso produttivo. Il rispettivo attrezzo necessitava collegamenti, modifiche, adattamenti, per cui non c’erano mai soldi disponibili. Dunque, c’erano soldi solo per la costruzione dell’attrezzo, poi lo si guardava soltanto, come se fosse in mostra. E allora tutti questi attrezzi, cari e assai numerosi, venivano semplicemente depositati lì, senza essere montati, a me chiedevano il piano sempre come prima”, aggiungeva Pamfil Iliescu.



    I rapporti commerciali con gli altri Paesi socialisti diventavano sempre più difficili, cosicchè la Romania stava per diventare un sistema economico chiuso. La direzione di molte imprese era costretta ad accettare prodotti e attrezzi che non avevano niente a che fare con la loro attività. Le proteste del dicembre 1989 furono determinate anche dal fatto che Nicolae Ceauşescu, estremamente ottuso, non ha capito che doveva cedere il potere al XIV Congresso. A dicembre 1989, a scendere in strada furono proprio i lavoratori delle grandi piattaforme industriali.



    “Ci si parlava moltissimo. Un conto era ciò che si diceva nelle sedute e un altro ciò che si parlava appena fuori. La gente aveva cominciato a stancarsi anche perché non c’erano più giorni liberi, si lavorava anche di sabato e domenica. Anzi, ci si lavorava meglio la domenica, perché non c’era nessuno che ti tormentasse! Ma c’erano anche molte scontentezze. Alcune persone erano molto attive nel partito, per cui c’era una differenza colossale tra il modo in cui discutevano durante le riunioni e quello in cui ci si discuteva tra colleghi. Senza alcuna esagerazione, moltissima gente aspettava un cambiamento in seguito al Congresso di novembre. La delusione fu enorme quando, dopo il Congresso, le cose rimasero esattamente come prima, perché ormai c’erano degli esempi intorno. Come stato d’animo la situazione era esplosiva, per cui tanta gente non fu stata sorpresa da ciò che è successo ulteriormente”, concludeva Pamfil Iliescu.



    Ciò che è seguito solo un mese dopo il XIV Congresso del partito comunista ha significato la riconquista della libertà pagata però con il sangue.

  • Radio Romania – 85 anni di storia

    Radio Romania – 85 anni di storia

    Il 1 novembre del 1928 l’allora Società di Diffusione Radiotelefonica mandava in onda il suo primo segnale, l’atto di nascita della sua esistenza. Negli anni ’30 nascevano anche i primi notiziari in lingue straniere: inglese, francese, tedesco e italiano. Lo storico Eugen Denize è autore della più completa monografia di Radio Romania, che conta ben quattro volumi. A opera ultimata, nel 2004, Denize raccontava come aveva cominciato il lavoro di ricerca negli archivi, durato dal 1996 al 2001. Ne è risultata la prima storia di sintesi della Radio romena.



    “Vedendo la ricchezza di materiali esistenti negli archivi, abbiamo deciso di elaborare una monografia in più volumi. Il primo si occupa, oltre agli anni di pionierato, dei primi dieci anni della Società, dal 1928 al 1938. Dal 1939, in Romania furono insediati successivamente regimi dittatoriali, totalitari, cosicchè cambiarono anche le condizioni in cui la Radio svolse l’attività. Fino al 1989 ha dovuto far fronte a pressioni politiche speciali, e posso dire che è riuscita a conservare il suo equilibrio e le funzioni basilari. Il secondo volume riflette il periodo che abbiamo definito delle dittature di destra, cioè la dittatura di re Carlo II, la dittatura dei legionari — i fascisti romeni e del maresciallo Antonescu. Il volume si conclude con il momento 23 agosto 1944, quando la Romania si affiancò agli alleati. Il terzo volume rispecchia il periodo dell’insediamento del regime comunista e l’epoca del suo primo leader, Gheorghe Gheorghiu-Dej, fino alla sua morte avvenuta nel 1965; mentre l’ultimo volume esamina il periodo di Nicolae Ceauşescu, dal 1965 fino al 1989, con le aperture dopo il 1964 e con le chiusure e i rigori degli anni 1971-1974. Sono 4 volumi che si basano rigorosamente sul materiale documentario esistente nelle teche della Radio. Da questo punto di vista, sono novità assolute come materiale di studio storiografico”, spiega il prof. Denize.



    Oltre alla missione informativa, la Radio si assunse già dai suoi inizi la funzione culturale — educativa, anche quella di intrattenimento. “Dai suoi inizi, la radiofonia, prima ancora dell’apparizione della Società di Raddiodiffusione, si è posta il problema dei suoi compiti. Si tratta di una missione culturale molto importante. Ma anche di una missione nazionale. La Radio ebbe un grandissimo ruolo nella continuità con cui ha promosso e difeso i valori nazionali. Poi c’è la funzione educativa, nel senso basilare del termine: ci sono molti programmi che hanno un pubblico target – per bambini, ragazzi, studenti, per l’esercito, per i contadini. Sono rimaste famose le trasmissioni dell’Università della Radio, cui collaborarono grandi nomi della cultura romena: lo storico Nicolae Iorga, il sociologo Mihai Ralea, l’esperto di estetica Tudor Vianu, gli scrittori Mihail Sadoveanu e Tudor Arghezi e tanti altri. Praticamente, tutti gli intellettuali rappresentativi della Romania sono stati ai microfoni della Radio”, aggiunge lo storico.



    Eugen Denize considerava che una storia della radio romena dopo il 1989 fino al presente è più difficile da scrivere, in quanto gli archivi non hanno più raccolto documenti scritti sui quali si basasse l’interpretazione storica, a causa dell’enorme volume di informazioni.



    “La rivoluzione del dicembre 1989 ha significato un grande cambiamento per tutti i cittadini romeni, e forse ancora di più per la radiodiffusione. Fino al 1989, la radio era monopolio di stato, compreso il periodo di democrazia degli anni 1928-1938. Dopo il 1989 questo monopolio statale scompare e le frequenze seguono le norme del mercato media libero. Nasce così una concorrenza che diventa sempre più accanita. Fatto che diventa per la radio pubblica una grande sfida. Credo che i giornalisti della Radio abbiano risorse per far fronte a queste sfide. Lo dico dopo aver visto cosa succede anche in altri paesi europei come Italia e Gran Bretagna, dove la missione della radio e tv pubblica non solo non è diminuita, ma è aumentata. In questa diversità di emittenti radio, la radio pubblica romena ha il grosso vantaggio della tradizione”, conclude Eugen Denize.



    Radio Romania ha una storia di 85 anni e dimostra l’equidistanza e la qualità dei suoi prodotti giornalistici. E’ un bene riconquistato nel 1989, essenziale in ogni società democratica.

  • La civiltà di Cucuteni-Poduri

    La civiltà di Cucuteni-Poduri

    Una delle più impressionanti civiltà neolitiche è quella nota come Cucuteni-Trypillya che, su una superficie di 35.000 chilometri quadrati, include il nord-est della Romania, la Moldova e il sud-ovest dell’Ucraina. E’ intitolata al villaggio di Cucuteni dove, nel 1884, furono rinvenuti i primi reperti archeologici. Caratterizzata dalla meravigliosa ceramica dipinta, la cultura Cucuteni risale agli anni 4.800 – 4.600 a.Chr. La gente di quei tempi aveva uno stile di vita sedentario e si occupava con la caccia, l’agricoltura, la pesca, faceva vari mestieri e persino estraeva e vendeva il sale. Uno dei più importanti insediamenti in Romania, inserito nella civiltà di Cucuteni, è il villaggio Poduri, in provincia di Bacău, nell’est del Paese. Nel 1979 vi fu rinvenuto un sito archeologico molto ricco con abitazioni, attrezzi, depositi di provvigioni, ceramica dipinta, statuette e persino un mulino. Il Centro di Storia Orale della Radiodiffusione Romena ha realizzato un documentario sul sito archeologico di Poduri. L’archeologo Dan Monah, che ha diretto gli scavi, ci ha offerto dei dettagli.



    “I primi abitanti di Poduri vi si stabilirono intorno al 4.800 a. Chr., e costruirono un primo villaggio, distrutto, ad un certo momento, da un incendio. Tornarono e ricostruirono il villaggio e il fenomeno fu ripetuto almeno 15 volte. La superficie che siamo riusciti a studiare per quasi 30 anni è purtroppo ridotta, ha circa 1.000 metri quadri, mentre la superficie dell’intero insediamento è compresa fra 60.000 – 80.000 metri quadri. A Poduri abitavano soprattutto agricoltori sedentari, che senza dubbio andavano a caccia e a pesca. Un vantaggio erano per loro le sorgenti salate, perché estraevano il sale e lo scambiavano per altri prodotti con le popolazioni che vivevano in zone prive di sale”, spiega l’archeologo.



    Dan Monah ha fatto riferimento ai più importanti reperti rinvenuti a Poduri. “Sono stati trovati grandi depositi di cereali e ricorderei un’abitazione con almeno 16 depositi del genere. Sono stati scoperti in varie fasi di costruzione, alcuni dalla forma di piccole scatole di un metro quadro, alti 45 centimetri, dunque con una capienza di mezzo metro cubo. Ma la scoperta più spettacolare nella zona è il cosiddetto mulino, una costruzione che conteneva 4 sili alti circa 1,10 metri. Al momento della scoperta un terzo di ciascuno conteneva cereali carbonizzati, uno conteneva orzo e gli altri due grano. Vicino ai sili c’era una costruzione rettangolare con 5 macine. E’ uno dei più antichi mulini dell’Europa sud-orientale”, aggiunge Dan Monah.



    La gente della civiltà di Cucuteni lavorava, ma pregava anche. Molto importante è anche l’inventario degli oggetti di culto rinvenuti da Dan Monah e dalla sua equipe a Poduri.



    “E’ stata rinvenuta una costruzione a due piattaforme. Vicino alla prima c’era un complesso formato da 7 statuette femminili, un trono in terracotta e un piccolo vaso di ceramica. Lo abbiamo chiamato la Sacra Famiglia, perché sembrava rappresentare la componente femminile di una famiglia: la madre e altri 6 personaggi femminili, che secondo le dimensioni e le caratteristiche sembravano di età inferiore. La scoperta più interessante, rinvenuta vicino alla seconda piattaforma, è stato un vaso contenente 21 statuette femminili, 13 troni e due oggetti che allora abbiamo chiamato OPN, cioè oggetti preistorici non-identificati. Il vaso in cui si trovavano gli oggetti sacri era protetto da un altro vaso rovesciato. Tutti erano rotti a causa del crollo delle mura e dei depositi aggiuntisi ulteriormente. Questo complesso, che abbiamo chiamato il sinodo delle dee, è una raffigurazione del pantheon della gente pre-Cucuteni, non solo di Poduri. 28 anni più tardi, nel villaggio di Isaia, in provincia di Iaşi, in un insediamento pre-Cucuteni, è stato scoperto un vaso con 21 statuette, 13 troni, 42 sfere perforate, dunque un multiplo di 21, 21 coni, 21 sfere incompletamente perforate. Ecco dunque una relazione tra due complessi di culto che rileva l’unità religiosa delle tribù pre-Cucuteni”, dice ancora l’archeologo.



    Il medico Romeo Dumitrescu, collezionista di ceramica di Cucuteni e finanziatore degli scavi, conferma quanto detto dall’archeologo Dan Monah.



    “I pezzi più belli possono essere considerati quelli del tesoro di Bohotin che contiene 21 dei, di cui 13 seduti su piccole sedie di terracotta. Più un oggetto molto bello, molto raro all’epoca, sempre parte di un tesoro di 21 statuette di terracotta, che contiene la più bella raffigurazione di una coppia disegnata sul lato di una sedia. Tutti gli oggetti sono bellissimi, ciascuno ha la sua stranezza, ma si tratta di disegni che non si ritrovano in altre culture, che attirano e possono diventare un’ossessione”, spiega Romeo Dumitrescu.



    La civiltà di Cucuteni è una manifestazione palpabile dell’uomo neolitico la cui creatività non era per nulla inferiore a quella della gente di oggi. Le meraviglie che l’archeologia porta oggi alla luce, sono incantevoli esempi di spirito pratico.

  • L’esilio romeno nei dossier della Securitate

    L’esilio romeno nei dossier della Securitate

    Per decenni, la Securitate, la famigerata polizia politica del regime comunista, rappresentò uno strumento del terrore per i romeni del Paese, ma anche per quelli all’estero. Nomi importanti dell’esilio romeno entrarono nel mirino della Securitate. Per annientarli o per strumentalizzarli, il regime mise in campo risorse importanti, il più delle volte sproporzionate, che alla fine ebbero successo.



    Alla presentazione del volume Le talpe della Securitate” di Dinu Zamfirescu sui romeni in esilio al servizio della Securitate, lo storico Liviu Tofan ha accennato all’importanza con la quale la polizia politica li pedinava.



    L’esilio romeno fu un obiettivo importante della Securitate e tra i suoi pochi successi si annoverò il suo indebolimento. La Securitate puntò al vertice ed ebbe successo in molti casi, riuscendo ad attirare dalla parte del regime di Bucarest molte personalità di spicco dell’esilio. Perché e con quali mezzi? Ci sono tre casi famosi: Virgil Veniamin, vecchio membro di spicco del Partito Nazionale dei Contadini e dell’esilio parigino, Eftimie Gherman, ex leader socialista e il grande giornalista Pamfil Şeicaru. Ma la lista è purtroppo assai lunga. Tra i più noti agenti della Securitate ricorderei lo scrittore Virgil Gheorghiu, autore di un noto romanzo dal quale fu tratto un film a Hollywood, Ion V. Emilian, che pubblicava il periodico Stindardul” a Monaco di Baviera e lavorava per i servizi di sicurezza estera, il socialdemocratico Duiliu Vinogradschi, Gustav Pordea, il primo europarlamentare di origine romena e l’industriale Iosif Constantin Drăgan”, spiega Liviu Tofan.



    Da parte sua, lo storico e politologo Stelian Tănase ha accennato ai metodi utilizzati dalla Securitate per il reclutamento.



    Il più delle volte c’era un misto fra l’essere comprato e l’essere pagato, perché spesso, soprattutto verso la vecchiaia, tutti avevano una situazione materiale difficile. Oppure venivano ricattati perché avevano problemi, o venivano ripagati con dei servizi: avevano parenti nel Paese che beneficiavano di agevolazioni, di soluzioni a certi problemi con le proprietà, la pensione o il passaporto. Tutti questi metodi che sembrano semplici erano utilizzati in varie combinazioni per convincere l’uno o l’altro ad accettare di collaborare con la Securitate”, dice Stelian Tănase.



    I successi della polizia politica del regime comunista tra gli esiliati romeni si registrarono soprattutto a cominciare dalla metà degli anni 1960. Stelian Tănase ha spiegato il cambiamento avvenuto nella Romania comunista a cominciare dal 1964, che ha determinato la rivalutazione dei rapporti di alcuni esiliati con le autorità comuniste di Bucarest.



    E’ successa anche un’altra cosa. Se guardiamo i documenti e la cronologia, notiamo che i collaborazionisti avevano ceduto alle pressioni negli anni ’60. Qual’era l’elemento apparso negli anni ’60? Fu lo stesso meccanismo che trasformò in delatori persone del tutto oneste, nell’ultimo anno di detenzione politica. Era cambiata la politica estera della Romania, Bucarest dava segni di emancipazione da Mosca, lo spazio romeno cominciava a de-sovietizzarsi. Era apparsa una corrente nazionalista-pattriotica. Molti si lasciarono ingannare da questa mossa, cosicché anche nell’Occidente si diffuse l’idea del sostegno al regime di Bucarest, perché ci diffendeva da Mosca. Devo dire che molte persone che non hanno lasciato in eredità capolavori, li hanno lasciati negli archivi della Securitate. I loro rapporti dimostrano genio e talento ritrattistico del tutto speciale”, aggiunge Stelian Tănase.



    Lo storico e politologo Daniel Barbu è del parere che dagli archivi della Securitate sugli esiliati veniamo a sapere nuove cose sulla natura umana:



    Veniamo a sapere chi siamo noi come persone, cose sulla natura umana, sulle debolezze e le vulnerabilità, sull’etica oscillante che ci anima, sui pretesti che invochiamo per dare un contenuto etico a fatti di poca importanza. Esiste una tecnologia propria della Securitate oppure, in senso più largo, dei servizi di questo tipo nello spazio sovietico? Esiste veramente una posta in gioco ideologica per la Securitate in queste azioni o semplicemente si tratta di un lavoro burocratico, a volte ben fatto, altre volte non tanto bene, che tutti i servizi simili fanno? Forse in un primo momento, la Securitate, come anche la Čeka, era animata da un pathos proletario. Però, dopo qualche anno, l’unica preoccupazione che animava la Securitate era di diventare un’istituzione importante e influente che controllasse quanto più strumenti, quanto più persone”, spiega Daniel Barbu.

  • La Shoah in Romania

    La Shoah in Romania

    L’Olocausto rappresenta la forma massima di odio di cui l’essere umano fu capace nel corso della storia. Dal disprezzo alla retorica razzista sull’inferiorità, i professionisti dell’odio hanno compiuto un ulteriore passo verso la deportazione e l’assassinio di massa, senza discriminazione.



    Le vittime furono soprattutto ebrei e rrom. La Romania ha la sua parte di responsabilità nei crimini della Shoah, responsabilità assunta nel Rapporto Wiesel del 2004, quando decretò la data del 9 ottobre come Giornata Nazionale dell’Olocausto.



    L’archivio del Centro di Storia Orale di Radio Romania custodisce testimonianze di particolare rilievo di coloro che hanno vissuto gli anni del periodo interbellico e della seconda guerra mondiale. Il medico Radu Petre Damian, ricordava in un’intervista del 1999, alcune manifestazioni antisemite alla Facoltà di Medicina di Cluj.



    “Nel primo anno si facevano dissezioni, per studiare la muscolatura, l’osteologia e la miologia e per analizzare gli organi interni. Al nostro tavolo di dissezione c’erano anche due ebrei, tra cui uno di nome Davidson. Uno di noi gli disse: “Senti, non abbiamo mai visto un cadavere di ebreo!” E la risposta fu: “Noi non profaniamo i nostri cadaveri!” Ciò che seguì fu terribile. Tutta la sala sembrava essere impazzita, le ossa, i femori, tutto fu lanciato verso gli ebrei. Si ritirarono in un angolo, tremando per ciò che sarebbe successo. Con grande fatica alla fine si calmarono gli spiriti. “Come dire una cosa del genere?!” Cioè noi profaniamo i nostri cadaveri?!” Subito dopo, gli studenti fecero un riunione nel cortile della facoltà per decidere se scioperare o meno e che misure prendere. Alla fine si calmarono tutti e concordammo che non avremmo fatto nulla a patto che non parlassero mai più così”, ricordava il medico.



    Lo storico dell’arte Radu Bogdan aderì al movimento comunista sin da giovane. Ma non fu dogmatico, sebbene fosse sopravvissuto al campo di concentramento. In un’intervista del 1995 ricordava che il comandante del suo lager era stato un vero salvatore, ed aveva mantenuto i propri principi anche di fronte a ordini assurdi.



    “I veri salvatori sono come il mio comandante di lager, che amai e rispettai moltissimo, e con cui rimasi in rapporti amichevoli. Era una persona straordinaria, si chiamava Petre N. Ionescu. Era consigliere presso la Corte di Appello di Bucarest e membro di una famiglia di magistrati di grande prestigio a Iaşi. A Osmancea, dove ci rinchiusero, c’era dunque questo magistrato, soprannominato Mickey Mouse, piccolino, ma nel suo aspetto nessuno avrebbe potuto intuire le sue straordinarie risorse morali. Una persona particolarmente integra e degna. Ricordo che un giorno venne in ispezione, non annunciato, il colonnello Corbu, che lo trovo senza cravatta. Faceva caldo e lo colse in un momento di relax. Cominciò a strillare e a rimproverarlo che andava in giro senza cravatta. Ma lui gli rispose così: “Colonnello, è vero che io sono solo tenente, mentre Lei è colonnello, ma non Le permetto di parlarmi con questo tono e tanto meno di alzare la voce. Non dimentichi che nella vita civile sono un alto magistrato, consigliere alla Corte d’Appello e mi deve rispetto!” Quest’uomo non ha mai preso tangenti in vita sua. Alle persone che non sapevano più cos’era successo con le loro case, permetteva di andare a vedere. Le lasciò portarsi nel lager anche bombole a gas per riscaldarsi. Nessuno fu perseguitato nel lager da lui diretto, per cui ho sempre ammirato il coraggio e la coscienza di questa persona”, raccontava Radu Bogdan.



    Sonia Palty finì nel lager negli anni della guerra e fu testimone di un episodio commovente sulla riva del fiume Bug. La registrazione è del 2001:



    “Una mattina, il viceprefetto Aristide Pădure entrò a cavallo nel lager e disse: tutti gli ebrei, sulla riva del Bug! Vi facciamo passare dall’altra parte, dai tedeschi!” Sapevamo che ciò che diceva era sinonimo della morte! Mio padre aveva tre pasticche di arsenico, come anche la famiglia Brauch. Il signor Brauch diede una pasticca al mio amico Fritz, allora ventenne. Io avevo 15 anni. Ci disse: Quando saremo nella barca, prendiamo la pasticca, non ha alcun senso finire in mano ai tedeschi.” Prendemmo le pasticche in mano, ma io e Fritz ci mettemmo d’accordo di non prenderle perché volevamo vivere. Si sedemmo sulla riva del Bug e alzando gli occhi vedemmo, a 40-50 metri da noi, molti zingari che trainavano i propri carri perché i cavalli glieli avevano portati via. Dai carri scesero donne e bambini e cominciò il loro trasporto dall’altra parte del Bug. Seguì un incubo: le zingare, appena arrivate in mezzo all’acqua, buttarono prima i bambini, dopo di che si buttarono anche loro nel fiume. Sulla riva, gli uomini, il resto della famiglia e gli altri bambini cominciarono a urlare e a strapparsi i cappelli. Guardandoli, ci immaginavamo che ci aspettasse la stessa situazione”, ricordava anche Sonia Palty.



    L’Olocausto fu l’espressione dell’odio, delle ossessioni e della cecità generalizzata. Le sue lezioni sono dure e il messaggio chiaro. Però tuttavia l’umanità non è del tutto guarita dalle tentazioni del radicalismo.

  • Gli albori dello stato in Romania

    Gli albori dello stato in Romania

    Lo stato medioevale romeno apparve molto tardi sulla carta politica dell’Europa, precisamente alla metà del XIV secolo, fatto attribuito dagli storici in primi luogo ad argomenti politici. Gli stessi studiosi invocano anche le trasformazioni economico-sociali connesse all’instabilità generata dalle migrazioni. Lo spazio romeno, assieme a quello slavo settentrionale, fu esposto periodicamente all’impatto destabilizzatore delle ondate migratorie di origine turco-mongola provenienti dall’Asia.



    Gli inizi dello stato della Valacchia, tra i Carpazi Meridionali e il Danubio, il nucleo del futuro stato romeno costituito a metà Ottocento, sono incerti a causa della mancanza di fonti. Ipotesi più o meno credibili cirolano parallelamente. La più recente teoria sulla formazione della Valacchia è quella cumana proposta dallo storico Neagu Djuvara, che punta sull’influenza consistente della popolazione migratoria turca dei cumani sulla nascita della statalità valacca.



    Lo storico Matei Cazacu, specializzato nella storia del Medio Evo, è ricercatore presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica in Francia e conferenziere all’Istituto Nazionale di Lingue e Civiltà Orientali di Parigi. Lo studioso ci ha presentato le ricerche condotte finora sulla formazione della Valacchia nell’archeologia.



    ”Sono stati effettuati degli scavi a Curtea de Argeş e Câmpulung e sono state rinvenute le case principesche e la vecchia chiesa del 13-esimo secolo. C’erano voivoda e principi che godevano di un certo statuto e che ricerche attente ci hanno fatto vedere come si erano affermati. Fino allora, erano vissuti in società orali che non scrivevano. Si è venuto a sapere di questi principi valacchi dopo l’occupazione di Costantinopoli nel 1204 da parte dei crociati e dopo l’inserimento di questi territori in un’immensa strategia papale di inclusione dei pagani e degli scismatici a nord e sud del Danubio. Erano romeni e ortodossi, abitavano in case di pietra o legno. I cumani e gli altri nomadi abitavano sulle rive del Danubio e dei piccoli fiumi che sfocciano nel Danubio, e vi lasciarono delle tracce. E le loro tombe, 13 in tutta la Valacchia, si trovano soprattutto a est. Si vede che la sede del potere cumano era verso oriente, la Dobrugea e il sud della Bessarabia. Se la Valacchia fosse stata fondata dai cumani, la capitale non sarebbe stata a Curtea de Argeş, in montagna, e lo stato non si sarebbe chiamato Valacchia (in romeno Muntenia, ovvero il paese dei montanari”), ma sarebbe stata a Lehliu o Caracal, posti in cui abitavano i cumani, non nel cuore dei Carpazi”, spiega Matei Cazacu.



    L’interpretazione con cui concordano molti storici è che nel sud dell’attuale Romania, ci furono due formazioni statali: il nord subcarpatico, controllato dalle elite romene e il sud danubiano controllato dai cumani. Le carte menzionano il nome Cumania per l’est e il sud della Valacchia.



    Dall’Olt verso Oriente, nella geografia occidentale di lingua latina, lo spazio compare come Cumania. Dall’angolo formato oggi dalla provincia di Argeş, più l’Oltenia, iniziò l’espansione dello stato romeno creato ai tempi di Bessarabo I. Non parliamo della sua origine, importante è il ruolo storico svolto. Si identificò con lo stato romeno e contribuì alla sua genesi. Però il nome di Cumania appare fino a tardi come impero delle steppe. Per un millennio, ci trovammo nella zona di influenza, a volte persino di dominazione, di questo impero delle steppe dove si succeddettero stirpi asiatiche. L’espansione dello stato romeno iniziò nel 13-esimo secolo verso Oriente, verso lo spazio designato dalla geografia occidentale come Cumania, la Cumania Nera essendo la parte occidentale e la Cumania Bianca lo spazio pontico settentrionale a est. Il processo iniziò con la penetrazione dei Carpazi da parte dell’ordine teutonico nel 1211, e nel 14-esimo secolo il processo fu continuato, in collaborazione con il figlio di Bessarabo, da parte dell’alleanza anti-tartara del Regno d’Ungheria e del Regno della Polonia. Tale alleanza spinse l’Orda d’Oro, il nome dell’Impero mongolo della steppa russa, verso est. La Cumania Nera era il nome con cui erano conosciute la Valacchia dall’Olt verso est e la Moldavia”, dice lo storico Şerban Papacostea.



    Matei Cazacu ha ricordato anche l’esistenza di vestigia che confermano la Cumania come entità statale zonale importante.



    Questa Cumania è documentata proprio dalla toponimia. Laddove abbiamo nomi come Bărăgan, Burnaz, Teleorman, sappiamo che c’erano cumani perché si tratta di nomi turchi antichi. Lo storico Nicolae Iorga lo ha notato molto bene. Da una parte, abbiamo questo settore cumano nel sud della Valacchia, nel Bărăgan, che va fino alle Foci del Danubio e nella Dobrugea Settentrionale. D’altra parte ci sono le zone abitate dai romeni con i toponimi Vlăsia e Vlaşca. Dopo di che, nel Banato, compaiono slavi insediatisi in tempi più o meno recenti. I cumani e prima di loro i peceneghi e altri, vivevano nella pianura, sulle rive di fiumi piccoli. Dominavano le popolazioni locali di romeni pescatori e agricoltori, lasciarono tracce nei toponimi e furono alla fine assimilati”, conclude Matei Cazacu.

  • La Fortezza di Enisala

    La Fortezza di Enisala

    Nel nord della Dobrugea, regione del sud-est della Romania, nei pressi del lago di Razim, ma anche vicino al posto in cui il fiume sfoccia nel Mar Nero, si trova, accanto alla località di Enisala, l’omonima fortezza. La sua denominazione deriva da una vecchia combinazione din parole turche – Yeni-Sale — che vuol dire “Nuovo Villaggio”. D’altronde, una volta, da queste parti c’era davvero un insediamento chiamato “Nuovo Villaggio”.



    La fortezza medioevale di Enisala si trova in cima ad una collina da dove, come in un nido di aquile, si può ammirare l’intera zona fino al mare. Infatti, questo è stato anche lo scopo della sua costruzione. Ci fa da guida Aurel Stanica, archeologo presso l’Istituto di Ricerche Ecomuseali di Tulcea.



    “Chi ha construito la fortezza? E’ una domanda a cui i ricercatori hanno provato a dare una risposta durante gli anni. In seguito alle ricerche archeologiche, ma anche alla consultazione delle fonti storiche, possiamo dire che la Fortezza di Enisala fu costruita nella seconda metà del XIV-esimo secolo da un’autorità che puntava al controllo della navigazione nella zona verso il nord, al lago Razim. L’uscita di questo lago al mare e il suo collegamento con il Danubio tramite due canali sono stati gli obiettivi presi in considerazione dai costruttori della fortezza. Chi l’ha costruita e chi aveva le possibilità economiche per farlo? Sono argomenti che fanno ancora sorgere dei punti interrogativi. Ma se seguiamo ciò che succedeva nel XIV-esimo secolo, e persino nel XIII-esimo secolo, scopriamo che tutto il commercio del Mar Nero era controllato dai commercianti genovesi, che avevano il monopolio anche per le zone vicine. I genovesi avevano le possibilità materiali per costruire anche una fortezza delle dimensioni di Enisala, con elementi di architettura orientali e occidentali”, spiega Aurel Stanica.



    Quindi, i presunti costruttori della fortezza di Enisala sono i genovesi. Pare che nel XIV-esimo e XV-esimo secolo, la zona si trovava all’incrocio di importanti vie commerciali. I reperti archeologici della fortezza, ma anche delle località vicine, attestano questa cosa attraverso i vasi di ceramica di Nicea e Faenza, per esempio. La fortezza, a sua volta, è stata abitata.



    “La fortezza non ha dimensioni molto grandi, ma poteva ospitare intorno a 200-300 militari, cioè una guarnigione abbastanza forte. Si tratta di un grande spazio trapezoidale, che si estende su una superficie di circa 3000 metri quadri. Rispetto ad altre fortezze più vecchie, dal periodo romano, questa era piccola. Ma per gli scopi per cui è stata costruita, questa superficie fortificata era capiente. Inoltre, è situata su una collina calcarea, ad un’altezza abbastanza grande, come un nido di aquile. Da lì, chi si trovava nella fortezza poteva vedere le barche che entravano dal Mar Nero, attraverso Gura Portitei, nel lago di Razim. Nelle vicinanze della fortezza, c’era anche una comunità rurale abbastanza forte. Richerche recenti condotte nei mesi di aprile e maggio hanno testimoniato l’esistenza di un villaggio medievale con una popolazione abbastanza cosmopolita, un mix di popolazione cristiana e un’altra che aveva un rito funebre abbastanza diverso da quello cristiano. Tale fatto ci indica che i tartari, che controllavano in quel periodo il nord della Dobrugea, hanno vissuto nell’insediamento rurale ai piedi della fortezza di Enisala”, aggiunge Aurela Stanica.



    Intorno al 1386, quando in Valacchia regnava il principe Mircea il Vecchio, il nord della Dobrugea — incluso la Fortezza di Enisala — fu integrato in questo principato. “Mircea il Vecchio rifà anche la Fortezza di Enisala e anche quella di Isaccea, punti chiave per il controllo della navigazione e del commercio sul mare, nel nord della Dobrugea”, aggiunge il nostro ospite.



    Negli anni 1419-1420, la Dobrogea fu conquistata dagli ottomani, però sembra che Enisala non era stata ancora integrata nel sistema amministrativo ottomano. Ciò è successo molto più tardi, verso la fine del XVI-esimo secolo, nel 1484, quando furono conquistate Chilia e Cetatea Alba. Allora, anche la Fortezza di Enisala fu inserita nella provincia ottomana di Dobrugea, con capoluogo a Babadag.



    All’inizio del XVII secolo, la fortezza fu abbandonata, ma appare ancora nei resoconti dei viaggiatori stranieri che sono passati nella zona in cui i pastori si erano costruiti un riparo temporaneo. I primi scavi archeologici in questo sito iniziarono nel 1939 e continuarono con interruzioni negli anni ’60 e ’70. Nel 1991, è stato avviato un progetto di ricerca e restauro, che ha continuato fino al 1997.



    Anche se solo parzialmente restaurata, la fortezza è stata ammirata l’anno scorso da oltre 16.000 turisti, ed è il più visitato obiettivo storico gestito dall’Istituto di Ricerche Ecomuseali di Tulcea.

  • Beatificazione del Mons. Vladimir Ghika a Bucarest

    Beatificazione del Mons. Vladimir Ghika a Bucarest

    Il Mons. Vladimir Ghika sarà beatificato in una messa solenne a Bucarest il 31 agosto. Il 27 marzo 2013, Papa Francesco aveva autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il martirio del Servo di Dio Vladimir Ghika, Sacerdote diocesano, nato il 25 dicembre 1873, a Costantinopoli, e ucciso in odio alla Fede a Bucarest, il 16 maggio 1954.



    Il mons. Vladimir Ghika è il terzo martire cattolico della Romania comunista ad essere beatificato dalla Chiesa Cattolica, dopo Szilard Ignac Bogdanffy (2010), vescovo romano-cattolico ausiliare di Satu Mare ed Oradea, morto nel 1949 nel carcere di Aiud e Janos Scheffler (2011), vescovo romano-cattolico di Satu Mare, morto nel 1952 nel carcere di Jilava.



    Secondo quanto rileva l’Arcidiocesi Romano-Cattolica di Bucarest, la messa di beatificazione sarà presieduta dall’inviato del Papa Francesco, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.



    Vladimir Ghika è nato il giorno di Natale, nel 1873, a Costantinopoli (l’odierna città turca di Istanbul), come nipote dell’ultimo principe della Moldavia, Grigore V. Ghika Voda (1849-1856), figlio di Ioan Ghika (generale di divisione e ministro plenipotenziario) e di Alexandrina Moret di Blaremberg (discendente di Enrico IV, re della Francia). Battezzato ortodosso, perché sua madre era molto fedele alla Chiesa Ortodossa, passò l’infanzia in ambiente protestante, accanto alla famiglia alla quale era stato affidato durante gli studi a Tolosa, in Francia.



    A 25 anni, andò a Roma per studiare filosofia e teologia cattolica all’università dei monaci domenicani. Nel 1902 passò al cattolicesimo per diventare, come diceva lui, “ancora più ortodosso”. Anche se voleva diventare prete o monaco cattolico, per non fare un dispiacere alla madre e seguendo il consiglio del Papa Pio X, si dedicò all’apostolato laico, svolgendo una ricca attività in tutto il mondo, da Bucarest, Roma, Parigi fino a Tokyo, Sidney, Buenos Aires.



    In Romania si dedicò agli atti di beneficenza e aprì il primo centro medico gratuito, Betlemme Mariae, a Bucarest e gettò le basi del grande ospedale e sanatorio San Vincenzo de’ Paoli (l’odierno ospedale Parhon). Fondando il primo ospedale gratuito in Romania e il primo servizio di pronto soccorso, diventò il promotore della prima opera cattolica di beneficenza nel Paese. Durante la guerra balcanica del 1913 partecipò ai servizi sanitari, dedicandosi alla cura dei malati di colera di Zimnicea.



    Durante la prima guerra mondiale si impegnò in missioni diplomatiche, andò in Italia ad aiutare le vittime del terremoto di Avezzano, i malati di tubercolosi di Roma, i feriti nella guerra, passando dagli ambienti diplomatici a quelli popolari con una sorprendente naturalezza. Il 7 ottobre 1923 il cardinale Dubois, arcivescovo di Parigi, lo ordinò prete cattolico, attività che svolse in Francia fino al 1939. Poco dopo essere diventato prete, ricevette dal Papa Pio XI il privilegio di poter tenere messe sia in rito latino che bizantino, diventando il primo prete romeno bi — rituale. Lo stesso Papa, lo nominò, il 13 maggio 1931, protonotario apostolico, e da allora a Vladimir Ghika gli fu attribuito il titolo di Monsignore.



    Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trovava in Romania e scelse di restarvi per aiutare i poveri e i malati. Per la stessa ragione, si rifiutò di lasciare la Romania quando venne insediato il regime comunista. Fu arrestato il 18 novembre 1952, accusato di “alto tradimento” e condannato a tre anni di reclusione. Incarcerato a Jilava, fu minacciato, picchiato con bestialità e torturato. Due anni dopo, il 16 maggio 1954, si spense a 80 anni a causa del trattamento inumano al quale era stato sottoposto. La salma di Vladimir Ghika venne sepolta nel cimitero vicino al carcere di Jilava, ma nel 1968 fu spostata dagli eredi nel cimitero ortodosso Bellu di Bucarest.

  • Rivalità politiche: re Carlo II e il principe Nicola

    Rivalità politiche: re Carlo II e il principe Nicola

    Nella storia della Romania, poche personalità hanno suscitato così tanta antipatia e così tanto odio come Carlo II. Nel mondo politico, fu ripudiato sia dalle figure emblematiche della democrazia romena, come Iuliu Maniu, che dall’estrema destra. Re Carlo II fu una persona orgogliosa ed autoritaria e gli effetti del suo modo di regnare non si lasciarono attendere. Alla fine di un decennio di regno, dal 1930 al 1940, la Romania di Carlo II era in agonia e aveva perso parte dei territori all’est, ovest e sud.



    Carlo II entrò in conflitto anche con membri della sua famiglia, tra cui suo fratello, il principe Nicola. Il quarto figlio della coppia Ferdinando e Maria, Nicola, fu battezzato dallo zar della Russia Nicola II amazzato dal regime bolscevico nel 1918. Sebbene educato come un principe che doveva essere atto a salire sul trono della Romania se ce ne fosse stato il caso, Nicola rifiutò di impegnarsi e di assumersi questa missione, anche se le occasioni non mancarono. Lo storico Ioan Scurtu spiega che il principe Nicola non voleva diventare monarca.



    Il principe Nicola era il secondogenito dei sei figli della principessa Maria, la futura regina, e di suo marito, re Ferdinando. Non voleva essere re, neanche quando il primo ministro Marghiloman ebbe l’idea che il principe Nicola fosse proclamato erede del trono, nel 1918, quando Carlo sposò Zizi Lambrino e stava essere escluso dalla famiglia reale. Poi, durante la reggenza, nel periodo 1927-1930, la regina Maria propose che il principe Nicola fosse eletto primo-reggente, di modo che diventasse capo della Casa Reale. Ma, come dicevo, il principe Nicola non ha mai avuto simili aspirazioni”, spiega lo storico.

    In famiglia, i fratelli spesso litigano, ed è valido anche per le famiglie reali. Nel caso della rivalità fra Carlo e Nicolae, lo storico Ioan Scurtu ha trovato due spiegazioni. La prima fu l’orgoglio di Carlo che voleva che tutti si sottoponessero ciecamente a lui, anche nelle scelte personali o sentimentali.



    Il 6 giugno 1930 quando Carlo tornò nel Paese dall’esilio che si era auto-imposto, il principe Nicola lo accolse a braccia aperte e lo abbracciò al palazzo Cotroceni dandogli il benvenuto. Secondo me, la motivazione del conflitto fu soggetiva, il matrimonio del principe Nicola con una persona che non faceva parte delle famiglie reali, fatto non consentito dallo statuto della Casa Reale. Carlo tentò di riportare Nicola sulla giusta strada”, sebbene lui stesso avesse una relazione con Elena Lupescu, la quale non proveniva neanche lei da una famiglia regnante, ma che tuttavia lui non sposò. Nicola sposò invece Ioana Dolete-Săveanu a dicembre 1931. Dietro suggerimento di Carlo, il ministro degli interni Constantin Argetoianu chiese al sindaco di Tohani, la località in cui si era realizzato il matrimonio, di portare il registro dei matrimoni e di far venire anche il notaio. Chiese a quest’ultimo di copiare il registro con tutti i matrimoni esistenti, tranne quello del principe Nicola con Ioana Săveanu”, aggiunge Ioan Scurtu.



    Un’altro motivo di rivalità fra i due fratelli fu la simpatia politica del più piccolo. Ioan Scurtu ritiene che ciò abbia avuto particolare importanza nel mantenimento del conflitto da parte di Carlo.



    La seconda causa del conflitto furono le opzioni politiche di Nicola. Lui si avvicinò al Movimento Legionario che nell’aprile 1936 aveva organizzato un congresso al quale furono istituite delle equipe della morte” che dovevano uccidere una serie di avversari politici, tra cui anche Elena Lupescu. Siccome Lei non apprezzava molto il principe Nicolae, evidentemente non desiderava discutere neanche con sua moglie. Per forzare le cose, il principe Nicola fece dei gesti di simpatia nei confronti dei legionari. In tale contesto, il Movimento Legionario distribuì un manifesto in cui elogiava il principe Nicola che aveva reagito contro la signorina” considerata un peso” per il Paese. Un anno dopo, nell’aprile 1937, su iniziativa di Carlo II, ebbe luogo un Consiglio di Corona al quale si stabilì l’eliminazione del principe Nicola dai membri della famiglia regnante. Era una questione abbastanza delicata perché era accusato di aver trasgredito lo statuto della Casa Reale, sposando una donna che non aveva origini reali”, aggiunge ancora lo storico.



    La fine della guerra significò anche la fine del casato romeno. Re Carlo II era in esilio già dal 1940, e gli si affiancarono anche gli altri membri della famiglia reale. Nel conflitto contro il fratello maggiore, Nicola cedette per primo e sempre lui gli stese la mano per fare la pace.



    Sebbene Carlo avesse avuto un atteggiamento molto negativo nei suoi confronti, il principe Nicola fu l’unico membro della famiglia reale a partecipare ai funerali di re Carlo II, a differenza di suo figlio Michele, delle sorelle o di altri parenti più lontani. Il principe Nicola fu un personaggio interessante della politica romena che non aspirò mai a prendere il posto di Carlo, e a diventare re della Romania, ma è anche vero che non accettò mai che Elena Lupescu si intromettesse nella vita politica”, conclude lo storico Ioan Scurtu. (trad. Gabriela Petre)

  • Comunismo versus comunismo: il conflitto romeno-jugoslavo

    Comunismo versus comunismo: il conflitto romeno-jugoslavo

    A marzo 1948, la risoluzione del Cominform condannava la Jugoslavia e Tito come traditori della causa comunista e agenti del regime capitalista. In seguito al conflitto fra l’URSS e la Jugoslavia, l’intero blocco comunista fu costretto ad allinearsi alla politica di Mosca e a condannare l’atteggiamento di Tito, ritenuto capitalista. Nel conflitto sovietico-jugoslavo fu attirata anche la Romania e il confine tra i due Paesi diventò una vera e propria linea Maginot, con fortificazioni e sfide di guerra. In realtà, il conflitto romeno-jugoslavo era uno falso, inventato su basi ideologiche tra due partiti, due regimi e due leader comunisti che non erano per nulla fondamentalmente diversi l’uno dall’altro: ambo le parti erano altrettanto dogmatiche nell’ideologia e fedeli al sistema repressivo.



    Nel 1998, il Centro di Storia Orale della Radiodiffusione Romena ha intervistato Ion Şuta, il capo della sezione operazioni dell’esercito romeno, uno dei responsabili della costruzione del sistema fortificato al confine romeno-jugoslavo. Lui diceva che tutte le decisioni in tal senso erano state prese a Mosca ed applicate dai comunisti romeni, sotto l’attenta sorveglianza dei consiglieri sovietici:



    “Mosca decise che per quanto riguardava i problemi militari con la Jugoslavia, una guerra era imminente. Di conseguenza, la Romania, che aveva un confine diretto con la Jugoslavia, diventò il Paese con il ruolo più importante, essendo in prima linea. Capimmo inoltre che il concetto militare generale era di difesa, non di offensiva contro Tito. Non si pose il problema di passare all’offensiva per rovesciare Tito dal governo con l’aiuto delle forze armate romene o in cooperazione con altre forze, sovietiche o di altri Paesi. Poco dopo il mio arrivo al comando, dovetti cominciare a elaborare dei piani di difesa al confine occidentale con Tito”, ha spiegato Ion Şuta.



    L’aumento delle tensioni nella zona allarmò entrambe le parti. La seconda guerra mondiale si era appena conclusa e tutti pensavano che la guerra fosse l’ultima soluzione per risolvere le vertenze. La difesa dei confini era il primo passo.



    “Con il generale Vasiliu e un gruppo di ufficiali della mia sezione operativa dei Comandamenti d’Armi della Regione Militare e del 38-esimo Corpo dell’Esercito di Timişoara svolgemmo missioni di osservazione sul confine per elaborare il piano di difesa del Paese. Alle missioni partecipò anche il consigliere militare sovietico, il generale Zakarenko, consigliere del comandante della regione. A volte ne partecipavano anche altri ufficiali sovietici di cui non ricordo le funzioni. Allo stato maggiore della regione c’era un altro consigliere, il generale Prohov, nella terza regione militare di Cluj. In occasione di queste missioni notammo il regime molto duro introdotto sul confine con la Jugoslavia nel 1950. Era stato messo del filo spinato per impedire il passaggio fraudolento delle persone sul confine e da una parte all’altra della frontiera. Questo severo regime di controllo doganale era completato da uno altrettanto duro della securitate. C’erano unità della polizia politica e della milizia a cavallo, che pattugliavano in tutta quella zona e anche a 30-40 chilometri dal confine.”, ha aggiunto Ion Şuta.



    Lungo una linea di separazione che prima era una formalità e segnava il confine fra due paesi amici e democratici, ora si alzavano ombre di guerra. Non solo la Romania doveva fortificare il confine con la Jugoslavia, ma anche gli altri Paesi comunisti che confinavano con questo stato.



    “In base al piano operativo di difesa del Paese al confine occidentale con la Jugoslavia preparammo poi il piano delle fortificazioni che includeva le truppe di difesa, fortificazioni di vario tipo (leggere o semplici) e trincee che fungevano sia da vie di comunicazione sia da trincee di combattimento vere e proprie. Ci dovevano stare mitragliatrici, cannoni e mortai. Le fortificazioni seguivano una linea continua da Curtici, al nord del Mureş, fino a Orşova e continuavano anche dalla parte jugoslava a Gura Timocului, facendo il collegamento con le fortificazioni che i bulgari dovevano realizzare sulle rive del Timoc in giù, verso la Grecia”, ha detto Ion Şuta.


    Furono costruiti bunker in calcestruzzo armato. Ci si lavorava di notte, affinché i possibili nemici non lo notassero. Vi furono anche incidenti al confine con sparatorie tra i militari di entrambe le rive del Danubio. Però non fu mai superato un certo livello delle tensioni perché il tutto era solo una dimostrazione reciproca di forza e nessuno desiderava un’escalation della situazione. I rapporti romeno-jugoslavi migliorarono quasi subito dopo la morte di Stalin nel 1953, e le fortificazioni diventarono inutili.


  • L’esercito romeno sul fronte orientale

    L’esercito romeno sul fronte orientale

    La Romania entrò nella prima guerra mondiale nel 1941, accanto alla Germania, quando tutti gli sforzi per il mantenimento della pace erano falliti. Il 22 giugno 1941, quando l’esercito romeno, assieme a quello tedesco, attraversarono il Prut per liberare la Bessarabia, annessa all’URSS un anno prima, le potenze vittoriose nella prima guerra mondiale si trovavano esse stesse in situazioni disperate. La Francia era stata occupata a giugno 1940 e l’Inghilterra faceva fatica a difendersi nel proprio arcipelago dalla furia del Wehrmacht. La Romania, punita da Hitler per la sua politica filo-francese e filo-inglese, si affiancò al nuovo ordine tedesco imposto in Europa e contribui in modo consistente alla guerra.



    L’esercito romeno iniziò l’offensiva contro quello sovietico su un fronte compreso tra il Mar Nero e i Carpazi della Bucovina. Dopo una fiacca resistenza sovietica, di sole tre settimane, le truppe romene liberarono le due province, la Bessarabia e la Bucovina Settentrionale. Il 27 luglio, Hitler inviò al maresciallo Antonescu un telegramma di congratulazione per la liberalizzazione dei territori romeni, chiedendogli di attraversare il Dniester e di occupare la Transdniestria. Le unità romene continuarono accanto a quelle tedesche l’offensiva antisovietica attraverso il sud dell’Ucraina, arrivando, alla fine, a Stalingrad.



    Il sottotenente Ahile Sari raccontava nel 1993 al Centro di Storia Orale della Radiodiffusione Romena che, al passaggio per il sud dell’Unione Sovietica, aveva visto cose terribili che superavano ogni immaginazione.



    “Vidi per la prima volta un treno di deportati sovietici, che non erano prigionieri, ma famiglie deportate probabilmente in Germania. Allora entrai in contatto per la prima volta con questa vita e con la situazione drammatica in cui si trovavano queste persone disumanizzate, affamate, che tenevano le gavetta tese verso di noi pregandoci di dargli qualcosa da mangiare. Fu per me un’immagine triste, noi tutti, ufficiali e soldati, ci affrettammo verso di loro, dandogli tutto ciò che si poteva tra i fili spinati, nonostante l’abbaiare dei cani da guardia dei vagoni”, ricordava Ahile Sari.



    A Stalingrad iniziò il disastro dell’esercito romeno nell’est. L’operazione Uranus dell’esercito sovietico aveva come scopo l’attacco del distaccamento settentrionale delle truppe tedesche di stanza a Stalingrad che era difeso da soldati romeni e ungheresi, meno dotati di armamento rispetto a quelli tedeschi e con il morale più basso. Con il forte sostegno degli autoblindi, il 19 novembre i sovietici attaccarono in maniera aggressiva. I romeni chiesero senza successo l’aiuto dei tedeschi. Il sottotenente Ahile Sari ricorda un episodio precedente l’attacco sovietico.



    “Nel bunker di un comandante di battaglione venne portato un prigioniero russo il quale ci informò che fra un giorno o due sarebbe cominciata la grande offensiva sovietica e perciò dovevamo stare attenti e prepararci. Siamo ben attrezzati, diceva il russo, abbiamo moltissime machine da guerra. Lo riferimmo ai superiori, ma nessuno credeva che dopo uno o due mesi di combattimento, in pieno inverno, sarebbe ancora successo qualcosa. Era il 17, poi il 19 novembre 1942, alle 4 del mattino, iniziò la grande offensiva sul Don e a Stalingrad”, ricordava l-ex sottotenente.



    Sul Don, l’esercito romeno perse più di 300.000 militari. Il notaio Mircea Munteanu, ricordava nel 1998 della sua partecipazione alla guerra. La sua testimonianza viene a rafforzare anche le altre secondo cui anche quando eri ferito e in teoria fuori pericolo, le sofferenze non erano ancora finite.



    “Sulle rive del Don, il 29 novembre iniziò l’attacco e una cartuccia mi colpì dalla sinistra, entrandomi sotto la clavicola. Mi ritirai con i tedeschi su un carro armato. Due maggiori che mi videro sul carro, mi chiesero di venire con loro. Gli dissi che il comandante del plotone era stato ammazzato dai russi con la baionetta. Cominciarono a curare la mia ferita e arrivammo a una fattoria dove un sergente, vedendomi soffrire, mi diede qualcosa da mangiare e mi consigliò di andare verso un altro villaggio dove c’erano 16 carrozze del Regimento 16 fanteria. Ci andai, ma la ferita mi faceva molto male perché ero venuto a cavallo, attraversando il campo. C’era la neve, faceva un freddo cane e dalla ferita mi correva molto sangue. Non potevo più salire in croppa al cavallo, le mie scarpe erano ghiacciate. Alla fine arrivai in un villaggio e chiesi a una sentinella dove potevo trovare qualcuno che si prendesse cura della mia ferita. Mi indicò un veterinario e poi partimmo di nuovo con altri feriti, arrivando a circa 30 chilometri dietro il fronte. Lì c’era un ospedale, un bagno e alla fine arrivò un treno che ci portò fino in Polonia”, ricordava anche Mircea Munteanu. (trad. Gabriela Petre)

  • 120 anni di socialdemocrazia romena

    120 anni di socialdemocrazia romena

    Nell’Occidente, il socialismo fu agli inizi un’idea e un programma di riforma sociale che si era proposto di offrire condizioni economiche migliori agli operai. Era direttamente legato all’industria, al tenore di vita dato dai rapporti socioeconomici tra i proprietari delle fabbriche e i loro dipendenti. Trasferito nelle società agrarie, il socialismo affrontò grossi problemi di adeguamento.



    Fu anche il caso del socialismo romeno arrivato dall’Occidente abbastanza presto. Dopo il momento rivoluzionario del 1848 e la creazione e il consolidamento dello stato romeno negli anni 1859 e 1866, il socialismo cominciò sempre di più a trovare un suo pubblico. Lo sviluppo dell’industria creò quel ceto sociale sensibile alle idee socialiste. Le pubblicazioni socialiste Telegraf roman, apparso nel 1865, Uvrierul, Lucrătorul român, Analele tipografice e Contemporanul furono per gli intellettuali socialisti e progressisti dei mezzi per mettere in circolazione le loro idee nello spazio pubblico. I nomi più importanti furono i fratelli Ioan e Gheorghe Nădejde, Panait Muşoiu, Zamfir Arbore, Titus Dunca. Il socialismo romeno ricevette poi l’influenza di una dose di socialismo russo tramite Constantin Dobrogeanu-Gherea, Nicolae Zubcu-Codreanu, Nicolae Russel, immigrati perseguitati dal regime zarista.



    Dobrogeanu-Gherea, il più prolifico e influente teorico socialista romeno del 19-esimo secolo, ebbe una missione estremamente difficile. Mentre doveva rispondere a coloro che ritenevano il socialismo qualcosa di estraneo allo spirito romeno, era costretto ad adeguare la teoria marxista applicabile a una società industriale, ad una società rurale. Il sociologo Călin Cotoi spiega qual’era il posto dei socialisti tra le idee espresse nello spazio pubblico romeno, e di Gherea in particolare.



    Il caso di Gherea è interessante proprio perché in lui si sente di più la tensione tra la teoria delle forme senza fondo e quella marxista. La maggior parte degli argomenti di Gherea hanno uno scopo ben chiaro, di legittimare l’esistenza di un socialismo locale. Per lui, la critica al socialismo romeno è riassunta nella frase il socialismo è una pianta esotica in Romania. Cioè, i socialisti erano degli individui strani che, certamente erano molto simpatici dal punto di vista progressivo e morale, ma non avevano nulla da dire. I romeni non erano una società in cui la retorica del socialismo potesse attecchire. La strategia alquanto interessante di Gherea era che la società si trasformasse in qualcosa di esotico e il socialismo in qualcosa di normale. Il grande problema, dice Gherea, è che nell’analisi della società romena dobbiamo utilizzare gli stessi termini come in Occidente, che là significavano qualcosa e qui una cosa del tutto diverso”, spiega il sociologo.


    La creazione del primo partito socialista romeno, il Partito Social Democratico degli Operai di Romania, il 31 marzo 1893, fu un’impresa assai difficile. Neanche dopo la sua fondazione ebbe una sorte migliore. La base elettorale del partito era assai bassa. Il programma del partito fu scritto da Dobrogeanu-Gherea il quale si ispirò al programma di Erfurt del Partito Social Democratico tedesco. Gherea pensava che la forma, cioè l’idea, avrebbe creato gradualmente anche il fondo, cioè la massa dei sostenitori.



    La sua strategia è di rendere esotica e scoprire l’anormalità sociale in Romania per mantenere la normalità della posizione socialista. Ad un certo momento lui dice: il socialismo è uguale al liberalismo in Romania. Se non ci fosse stato il liberalismo, non ci sarebbe stata la Romania moderna. Il socialismo è la prossima tappa. Immaginate solo, dice lui, quale sarebbe stata la situazione se i liberali romeni avessero iniziato le riforme nel 1770 anzicché nel 1848. Questo è il principale argomento di Gherea. E’ interessante che lui, quando gli si chiedeva di spiegare peché c’era bisogno del socialismo, utilizzava argomenti del populismo russo. E diceva che il socialismo è un dovere nei confronti del popolo che lavora. Il socialismo è infatti, piuttosto qualcosa di emozionale e di morale. Fatto coerente con ciò che succedeva nel socialismo di fine secolo romeno, che era una specie di sottocultura del socialismo. C’erano piccoli gruppi di persone che facevano le scienze della natura basate molto sull’emozionalità. Se guardiamo ciò che pubblicava Contemporanul, un giornale semisocialista, troviamo molti articoli sulle scienze della natura. Era dunque un misto di emozionalità, scienze della natura, moralità e mutamento sociale”, conclude Călin Cotoi.



    Malgrado i notevoli sforzi, la social-democrazia e il suo partito rimasero periferici in Romania fino a dopo la prima guerra mondiale. Furono piuttosto le passioni di alcuni intellettuali sognatori, che delle soluzioni serie. (trad. Gabriela Petre)

  • Eroine della resistenza anticomunista: Elisabeta Rizea

    Eroine della resistenza anticomunista: Elisabeta Rizea

    Nelle montagne della Romania, si formò, già nell’autunno del 1944, la resistenza armata anticomunista e antisovietica, le cui pagine furono scritte da militari, studenti, contadini, operai, uomini e donne. I romeni vennero a sapere della partecipazione delle donne alla resistenza solo dopo il 1989, quando il silenzio, che era calato come un velo sopra un Paese come una tomba, fu sollevato. Figura iconica dell’eroina che ha mantenuto la propria verticalità fu la contadina Elisabeta Rizea del villaggio Nucşoara, in provincia di Argeş (sud della Romania), diventata conosciuta grazie al documentario tv Memorialul Durerii” (Il Memoriale del Dolore”).



    Elisabeta Rizea fece qualcosa che oggi guardiamo con relativismo: non rinunciò mai ai propri principi. Elisabeta Rizea non ha mentito, non ha informato la Securitate, la polizia politiche del regime, su vicini o conoscenze e non ha mai perso la fede che la giustizia avrebbe prima o poi trionfato. Elisabeta Rizea si è schierata dalla parte di coloro che lottavano per la giustizia e la verità ed ha fatto qualcosa per loro: gli ha offerto da mangiare e li ha protetto dai nemici. E ciò ha significato moltissimo per il morale di coloro che lottavano.



    Elisabeta Rizea è il miglior simbolo del contadino semplice che ha difeso il suo piccolo universo, a cominciare dalla proprietà, dalla famiglie e dalla fede. Ed ha pagato per questo con 12 anni di carcere. Il Centro di Storia Orale della Radiodiffusione Romena ha avuto l’onore di intervistare Elisabeta Rizea nel 2000, a 88 anni. Elizabeta Rizea ha raccontato come faceva a mantenere i contatti con il gruppo di partigiani Arsenescu-Arnăuţoiu.



    Io non sono politico, ma sono una donna corretta. Da romena, non potevo schierarmi dalla parte di altri e non sostenere i miei romeni. Non li ho mai incontrati. C’era un salice con un cavo che fungeva da casella postale. Se vedevo passare l’esercito, scrivevo una nota: Attenzione, passa l’esercito!”. Quando venivano i responsabili della Securitate, che mi pedinavano, mettevo una tazza attaccata alla parete per sentire cosa si dicevano tra di loro nella stanza accanto. E non appena sapevo qualcosa, scendevo sulla scala e andavo dove c’era quel salice e mettevo il biglietto nel cavo. I partigiani e il capitano Arnăuţoiu andavano lì e trovavano le mie note. Io li informavo sul posto in cui si trovava l’esercito e mettevo anche del cibo, quel poco che avevo”, raccontava Elizabeta Rizea.



    Secondo le proprie confessioni, all’inchiesta Elisabeta Rizea fu appesa con i capelli a un gancio e fu picchiata finché rimase inconscia. In quei momenti, ricorda che si faceva il segno della croce con la lingua e pregava Dio per resistere e non dire nulla di ciò che sapeva. Era il giuramento che un uomo giusto non trasgredisce mai. Elisabeta Rizea si è ricordata anche le visite che la Securitate le faceva prima dell’arresto.



    C’era un ponte di legno e il poliziotto ci passava sopra con i suoi stivali. E quando sentivo quegli stivali, il cuore mi batteva forte. Pensavo: ora mi prende e mi fucila. Così ho vissuto, perché dovrei mentire? Entrava in casa, mi faceva alzava e mi chiedeva di loro. Io dicevo di non sapere nulla. Non ho mai dichiarato nulla. Avevo prestato giuramento in quella camera, c’erano sul tavolo il vangelo e la croce. Avevo preso la croce in mano e avevo giurato sulla Bibbia. C’erano il colonello Arsenescu, c’era il signor Tomiţă (Arnăuţoiu), c’era qualche medico. Solo gente che aveva studiato. E io ho giurato che non avrei mai tradito. E così ho anche fatto”, ricordava ancora Elizabeta Rizea.



    Più di 200 anni fa’, il filosofo e uomo di stato irlandese Edmund Burke (1729-1797) diceva: ”affinché il male trionfi, basta che i buoni non facciano nulla.” Nel caso di Elisabeta Rizea, proprio i buoni sostennero i cattivi. I vicini la inseguivano e riferivano alla Securitate ciò che lei faceva nel proprio cortile. Fu incarcerata, poi rilasciata nel 1963 e riuscì a sopravvivere al regime politico che aveva segnato la sua esistenza.



    L’impatto di Elisabeta Rizea sull’opinione pubblica romena fu enorme, soprattutto negli anni 1990-2000. Nel 2006, al concorso Grandi romeni, organizzato dalla televisione pubblica Elisabeta Rizea si piazzò al 58-esimo posto. Allora apparve anche l’idea di costruire un momento della resistenza nazionale anticomuniste, Elisabeta Rizea fu la prima proposta e la più sostenuta da parte delle organizzazioni civiche romene.



    Nel 2003, a 91 anni, la contadina Elisabeta Rizea si spense, lasciando un piccolo ricordo di dignità. Un piccolo esempio di come un essere umano può essere tormentato, disprezzato, rubato, però mai sconfitto.

  • Armi medioevali romene

    Armi medioevali romene

    In teoria, le armi non dovrebbero coesistere con lo spazio sacro. Però i nostri antenati non erano dello stesso parere. La storia militare dello spazio romeno medioevale ha, nelle icone e negli affreschi, esempi di rappresentazione delle armi come una realtà sociale importante. Nel 16-esimo secolo, sulle mura delle chiese romene, le immagini dei santi guerrieri, difensori della religione cristiana, attestano la presenza di certe armi negli eserciti dei principati romeni, che dimostrano l’appartenenza allo spazio occidentale.



    Studiando le mura delle chiese romene, gli storici hanno fatto delle scoperte sorprendenti. Una di esse ci è stata segnalata dal museografo Carol König, storico delle armi medioevali.



    Ho scoperto su un’affresco del monastero di Voroneţ, un archibugio. Fino al 1978 non si sapeva nulla sull’esistenza di questo archibugio, estremamente interessante, risalente agli inizi del 16-esimo secolo. Era lo stesso tipo esistente allora nello spazio europeo. Il suo meccanismo era a miccia, come d’altronde anche nel mondo occidentale. Nei nostri musei non si ritrovano archibugi così, non si erano conservate neanche immagini. Una parte delle armi raffigurate negli affreschi sono identiche a quelle esistenti nei documenti dell’epoca. Mi sono reso conto che il pittore ha rispettato, per quanto riguarda le armi, esattamente il tipo di arma esistente allora”, spiega Carol König.



    Tra le armi, la spada aveva la più forte simbologia religiosa. I santi guerrieri fanno vedere la spada come elemento principale della loro missione, la lotta alla non-fede. Il prototipo è quello dell’arcangelo Michele, il comandante degli eserciti di angeli, che lottano contro Satana utilizzando la spada. Una spada di forma mistica, dalla lama lunga e dalla guardia a forma di croce. Le spade venivano fabbricate in acciaio e le lame erano molto flessibili. Sono anche questi simboli molto forti della fede cristiana: l’acciaio significava la severità della fede propriamente-detta e la lotta all’infedeltà, mentre la flessibilità indicava l’animo umano sottoposto alle tentazioni. Carol König ha descritto la spada che compare nella raffigurazione di un santo guerriero sull’affresco del monastero di Curtea de Argeş.



    L’arma più significativa era la spada, un’arma bianca adatta a colpire di punta e di taglio, con la lama sempre dritta e a due tagli. E’ questa, infatti, la differenza tra la spada e la sciabola, quest’ultima ha la lama monofilare dritta o curva. Mi ha richiamato l’attenzione l’impugnatura e la guardia della spada, tipiche dell’epoca in cui è stata dipinta e che esisteva allora anche nell’Occidente. Un altro pezzo di armamento raffigurato nell’affresco è la lancia che fa parte sempre della categoria delle armi adatte a colpire di punta o di taglio. C’erano due armi del genere, la lancia da fanteria e quella da cavalleria. La lancia da fanteria era di solito più lunga, con la punta di varie forme, triangolari o di losanga. Quella da cavalleria invece era più corta con la punta pià dura, in acciaio, e le parti metalliche erano più piccole per poter penetrare la corazzatura dell’avversario”, aggiunge Carol König.



    Però l’arma di eccellenza degli eserciti romeni fu l’arco. Un’altra arma importante è l’arco. Gli eserciti dei Principati Romeni hanno utilizzato soprattutto gli archi, le spade e le lanci. L’arco era però una delle armi più importanti. La battaglia di Posada del 1330 è stata vinta grazie agli arcieri. In quella di Rovine del 1395, uno degli elementi essenziali per la vittoria di Mircea il Vecchio fu sempre l’uso degli archi che i romeni sapevano maneggiare molto bene. Alessandro il Buono inviò 400 soldati ad appoggiare gli eserciti polacchi nella battaglia di Marienburg del 1422, e la maggior parte erano arcieri. Le truppe romene erano conosciute per l’ottimo uso dell’arco in tutta l’Europa Orientale e quasi tutti i santi guerrieri sono raffigurati armati di archi. Quello dell’affresco è di tipo orientale e si vedono persino i tipi di saette utilizzate ai tempi. Le armi difensive sono le corrazze, ma le corrazze raffigurate nell’affresco non assomigliano a quelle dell’epoca, sono più belle e ricche di ornamenti e, secondo me, il pittore vi è intervenuto con la sua immaginazione”, conclude il museografo Carol König.



    Sembra che nel Medioevo ci siano esistite anche armi tipiche romene. Si tratta di un certo tipo di spada moldava, menzionata in una lettera del principe moldavo Stefano il Grande agli artigiani di Milano, in cui il principe ordinava dieci simili spade. Le prove materiali del documento si trovano a Istanbul, dove si conservano tre spade moldave, di cui una è appartenuta al principe stesso. (trad. Gabriela Petre)